Gaia
E' passato un anno e 5 mesi da quel terribile 14 aprile… era il 2006.
E io avevo 17 anni. Frequentavo il quarto anno di liceo classico, e da
un anno stavo con un ragazzo fantastico… finalmente, dopo un periodo
pieno di dolore, sembrava che la mia vita si stesse illuminando di
nuovo. Era l'inizio di marzo quando, preoccupata per un ritardo, feci
il test di gravidanza… Positivo. Non potevo crederci. Lo feci di
nuovo; in preda al panico telefonai ad una mia amica, che mi spiegò come
trovare un consultorio: io abito a Milano, in una zona centrale, e non
ho avuto problemi a trovarlo. Pensavo soltanto: non può essere vero. –
Ho sempre lottato fino all'ultimo contro l'evidenza delle cose che non
posso accettare… Anche quando, due anni prima, poco prima del mio
quindicesimo compleanno, per telefono era arrivata la notizia che il mio
papà era morto, mi ero messa a gridare che non era vero.
Chiamai il consultorio. Quando mi dissero che i due test erano
affidabili mi misi a piangere, priva di ogni controllo, chiesi che cosa
potevo fare, "io non posso avere un bambino, non posso", continuavo a
ripetere. Furono molto gentili, mi calmarono, mi dissero di andare da
loro per una visita. Ricordo quel periodo come una lunga trance, come se
l'avessi vissuto fuori da me… Ne parlai con il mio ragazzo, eravamo
sconvolti, terrorizzati, non ci rendevamo conto di come potesse essere
accaduto: avevamo sempre usato il preservativo! Sapevamo tutti e due che
la nostra non era la condizione adatta per un figlio… Due liceali,
senza grandissime risorse economiche, con due famiglie piene d'amore per
loro ma fragili, fatte di persone che hanno sofferto molto. Siamo
entrambi senza papà, e io ho una mamma e una nonna diversissime, che mi
amano in modi diversissimi, ma che sono accomunate dal fatto di essere
due persone complesse, difficili da gestire, piene di ansie per me… Le
ho sempre percepite, più che come sostegni, come persone da sostenere,
senza nulla togliere a tutto ciò che fanno per me.
Da subito, capii che avrei dovuto abortire. Sono sempre stata a favore
della maternità consapevole, e quindi dell'ivg, ma mi dicevo sempre che
forse io, trovandomi nella situazione, non sarei riuscita ad
interrompere la gravidanza… Il fatto è che da quando ero piccola mi
penso madre, adoro i bimbi, ho sempre fantasticato sui miei futuri
figli… ho sempre creduto che il giorno in cui avessi scoperto di
aspettarne uno sarebbe stato il più bello della mia vita. Amara ironia
della sorte: il giorno più bello è diventato il peggiore. Questo ha dato
il via ad una scissione, dentro di me, che non credo si risolverà mai…
La visita ginecologica per me fu la prima… Mi accompagnò la mia amica,
l'unica a sapere della gravidanza a parte il mio ragazzo. La dottoressa
fu molto gentile, si accorse che ero tesissima, e non solo per la paura
del dolore della visita, e mi tranquillizzò. Poichè ero minorenne, mi
spiegò che se non volevo coinvolgere i miei tutori, avrei dovuto
prima avere un colloquio con la psicologa del consultorio, e poi
rivolgermi ad un giudice minorile per richiedere l'ivg. Così, una
mattina saltai la scuola e andai, sempre con la mia amica, dalla
psicologa. Il mio ragazzo non poteva accompagnarmi perché eravamo nella
stessa classe, e l'assenza di entrambi avrebbe dato nell'occhio. La
psicologa mi trattò con molta delicatezza, volle sapere i motivi della
mia scelta, si accorse che tenevo molto all'equilibrio delle persone a
me care, che avrebbero visto un figlio come la fine di ogni speranza per
il mio futuro. Si offerse di aiutarmi anche in seguito, se l'avessi
voluto, ma per ora non sono mai tornata da lei, nè da nessuno
psicologo… forse ne avrei bisogno, ma mi è così difficile parlare di
questo argomento.
Qualche giorno dopo andai in tribunale, da sola, saltando di nuovo la
scuola, e… Quel giorno era di turno un giudice obiettore! La
segretaria mi invitò a tornare il giorno seguente. Tornai, sempre da
sola, impaurita e imbarazzata, e per fortuna trovai un giudice donna,
che, letta la relazione della psicologa, mi trattò bene e mi diede i
documenti di cui avevo bisogno.
Poi, dovetti andare a fare le analisi, e l'ecografia. Il ginecologo che
me la fece non voltò lo schermo verso di me, e gliene fui grata. Mi
chiese se stessi avendo perdite di sangue. Io dissi di sì, mi succedeva
di frequente. Mi disse che forse avrei avuto un aborto spontaneo, al che
io provai un misto di sollievo, paura, e senso di colpa per il
sollievo… Poi mi diede la data dell'intervento: venerdì santo. Il
livello del mio stress, intanto, cresceva di continuo, ed era aggravato
dalla necessità di dissimularlo, di continuare a recitare la parte di
sempre con le persone che amavo, a scuola, con gli amici… Mi gettavo a
capofitto nello studio e in ogni altra occupazione che mi permettesse di
NON PENSARE… Ma era inutile. In fondo a me, dentro di me, l'unico
pensiero fisso era rivolto al mio bambino che non sarebbe nato. Per
colpa mia. Ma come faccio, mi dicevo, come faccio a decidere da sola per
me, per la mia famiglia, per il mio ragazzo, per la sua famiglia? E'
troppo pesante, questa scelta, troppo enorme. Avrei voluto affianco il
mio papà… A lui avrei chiesto aiuto, lui che era forte, lui che
avrebbe capito… Ma lui non c'era. Ne parlavo con qualche mia amica,
con il mio ragazzo, ma… per quanto mi stessero vicini, nessuno di loro
sembrava capire davvero quel che stavo vivendo. Andai una settimana in
gita scolastica, e fu un disastro: perdite di sangue, vomito,
capogiri… per fortuna avevo con me il mio ragazzo, ma mi sentivo lo
stesso orribilmente sola, sentivo distintamente un gran desiderio di
morire. O di fuggire. Fantasticavo sulla possibilità di scappare,
lontana da tutti, i mesi necessari per partorire, e poi tornare, con in
braccio il mio bambino. Fantasticavo di proteggerlo contro tutto. Poi
tornavo alla realtà, e mi chiedevo: che vita posso offrirgli? Mi sentivo
persa.
La sera del 13 aprile, ho chiesto alla luna, al mio papà, a un Dio in
cui non credo, di non far succedere niente di grave durante
l'intervento… Pensavo a cosa sarebbe successo se i miei cari fossero
stati avvertiti dall'ospedale che ero in pericolo, scoprendo così cosa
avevo vissuto senza che loro lo sapessero. Ero rimasta così in tensione,
per tutto quel tempo, che non ero mai riuscita a farmi sopraffare dai
miei sentimenti, temendo che potesse trapelare qualcosa. Ma quella
notte, chiesi perdono al mio bambino, gli chiesi di tornare da me quando
fossi stata pronta ad accoglierlo, piansi, mi morsi forte le braccia per
non urlare…
Sono arrivata all'ospedale alle 7, in taxi, digiuna. Era circa l'ottava
settimana di gravidanza. Mi ha raggiunta subito il mio ragazzo. Ho
guardato con molta timidezza le mie due compagne di stanza, lì per il
mio stesso motivo, timide e impacciate per il mio stesso motivo… Il
personale è stato più che fantastico, persone allegre, disponibili,
sensibili. Una donna filippina, anche lei degente, mi si è avvicinata e
mi ha detto "sei proprio una bambina", e le stesse parole ha ripetuto
più tardi un'infermiera, con una dolcezza che non scorderò mai. Il
farmaco che mi hanno somministrato prima dell'intervento mi ha fatto
stare molto male. Non ha questo effetto su tutte, ma io ho reagito con
dolori fortissimi, continuavo ad alzarmi dal letto per andare a
vomitare, e il mio ragazzo che mi sorreggeva, e io che volevo vomitare
me stessa… Piangevo in silenzio, e vomitavo. Verso l'una mi hanno
portato in sala operatoria. Stavo malissimo soprattutto
psicologicamente, anche per il pudore che ho del mio corpo… Sapermi in
mano ad estranei, mi faceva sentire ulteriormente umiliata. Quando mi
hanno avvicinato al viso la maschera con il gas per addormentarmi, ho
inspirato a pieni polmoni: bramavo l'incoscienza, volevo andarmene da me
stessa per un po', volevo dimenticare ciò che stava per succedermi… Mi
sono svegliata con accanto il mio ragazzo, sentendomi, in un certo
senso, sollevata. Ho fatto merenda con un bel budino al cioccolato, ho
scherzato con gli infermieri. "E' finita", pensavo, "è tutto finito, ho
finito di mentire, ho finito di fingere"… Mi sbagliavo. Non ho finito
di fingere di non aver mai subito un trauma così grande. Non finirò mai.
Tuttora, è il mio pensiero costante. La mia anima e il mio corpo non
hanno dimenticato la vita che è stata strappata loro. La decisione che
ho preso mi peserà sempre dentro… A volte mi domando: se tornassi
indietro, lo rifarei? Non lo so. Forse sì, forse davvero non avevo altra
scelta. Ora uso la pillola, ma se mi dovesse ricapitare in futuro non
potrei per nulla al mondo rivivere questo incubo… Noi donne viviamo
una contraddizione continua: la società condanna chi abortisce, ci dice
di fare figli, e quando li facciamo, se abbiamo meno di una certa età,
ci considera strane, o fallite, ci toglie ogni possibilità di andare
avanti professionalmente, la nostra stessa famiglia ci giudica male… E
noi schiacciate in mezzo, tra sensi di colpa e incalzanti aspettative
del mondo esterno. Mi fa molto male sentire le posizioni di gran parte
della società, non solo ecclesiastica, che addita chi abortisce come
un'assassina, come un mostro… Come fanno a parlare di misericordia,
persone che non hanno pietà e comprensione per una scelta così difficile
e dolorosa, per quella che per molte donne è una tragedia che segnerà
per sempre la loro vita? Vi ringrazio, a questo proposito, per questo
vostro sito, ringrazio tutte le donne che hanno parlato della loro
esperienza… Era da tanto tempo che sentivo il bisogno di condividere
il mio dolore con qualcuno che l'ha vissuto. Ora, forse, una parte di me
è un po' meno inquieta.